Nanni Moretti è pressappoco mio coetaneo e la sua carriera cinematografica mi ha accompagnato fin dalla prima giovinezza, a partire dagli esordi folgoranti di “Io sono un autarchico” e “Ecce bombo” (un gioiello ancora oggi).
Dichiaro subito, a scanso di equivoci, di essere suo estimatore , come pressappoco la metà degli spettatori italiani. L’altra metà lo detesta per ragioni ideologiche: è noto l’appassionato impegno di Moretti nelle fila della sinistra italiana, pur non avendo mai ricoperto incarichi politici.
La critica è unanime nel riconoscerne il valore, anche se non ho dimenticato la faccia di un giovane Nanni di fronte a Monicelli che lo invitava a non sopravvalutare “Ecce bombo”.
Ai tempi il giudizio del regista viareggino mi urtò, e mi parve prevenuto per ragioni generazionali, ma devo ammettere che racchiudeva un fondo di verità, a riprova della competenza cinematografica dell’autore de “I soliti ignoti” e “La grande guerra”.
Quali sono le caratteristiche del cinema di Moretti?
Ė innegabile che il regista romano di natali altoatesini abbia una vocazione naturale al racconto per immagini. Non si contano, nella sua opera, le scene memorabili che traducono in modo originale, spesso spiazzante, un’emozione (di tutti i tipi, dal riso al pianto) o un concetto importante.
Tuttavia, e forse per questo che Monicelli lo invitava a non esaltarsi, il cinema di Moretti soffre di “corto respiro”, nel senso che é un cinema di episodi, senza un forte filo conduttore narrativo.
Sembra, a volte, di trovarsi di fronte ad uno straordinario autore di cortometraggi costretto, di malavoglia, a cucirli in qualcosa di più lungo.
Forse consapevole di questo difetto, che alla fin fine può essere considerato un pregio, almeno per me, incantato ancora oggi dal dispersivo ma irresistibile “Ecce Bombo”, manifesto della gioventù provinciale degli anni 70/80, Moretti ha trovato un astuto, riuscito rimedio: inventarsi attore dei propri film.
Moretti, nessuno me ne voglia, è negato per la recitazione, purtuttavia è sempre protagonista, o comunque deus ex machina, delle sue pellicole. Nelle quali si aggira un grottesco ma accattivante “pesce fuor d’acqua” in veste di minimo comun denominatore della sommatoria di episodi.
Si chiama “effetto di straniamento”, tipico del teatro orientale e di quello brechtiano : l’attore non deve immedesimarsi nel personaggio, ma far percepire allo spettatore di esserne l’interprete.
Concetto astruso, forse impossibile da tradurre in pratica, ma i film di Moretti sono il caso in cui si realizza meglio.
Nell’ultima sua pellicola, “Una madre”, Moretti ci gioca in modo scoperto: la cineasta protagonista della storia, impersonata da Margherita Buy, più di una volta raccomanda agli attori, sconcertati, di “rimanere accanto al personaggio”.
Questo film, presentato al festival di Cannes 2015 e fin da subito assai celebrato, anche se poi non vinse, non è un punto alto della cinematografia morettiana.
Non tanto perché manca di un discorso unitario e si limita a lanciare sassi mirati nel grande stagno del rapporto genitori/figli, reso drammaticamente inesprimibile dalla morte dei primi.
Questo nella filmografia morettiana s’era già visto. Personalmente trovo ancora ineguagliabile la meditazione contraddittoria, divertente e triste, pessimista e salvifica, sul cattolicesimo nostrano, che si trova nella miglior pellicola (giudizio personale ) del regista di Brunico: “La messa è finita”.
In “Mia madre” ciò che non funziona, duole dirlo, è il “pesce fuor d’acqua” demiurgico.
Moretti, infatti, ritaglia per sé un ruolo di comprimario in cui, forse per la prima volta recita un personaggio, neanche poi male: quello del figlio compostamente ma profondamente angosciato per la malattia incurabile della madre.
Il “pesce fuor d’acqua” lo fa Margherita Buy, che sembrerebbe avere le caratteristiche giuste.
L’attrice, alla stregua di Moretti protagonista dei sui film, è sempre uguale a sé stessa, quale che sia il contesto. Credo non si possa negare che la Buy abbia continuato a riproporre, nella sua fortunata carriera, il personaggio di “Billa”, la schizzata stralunata protagonista con Carlo Verdone di “Maledetto il giorno che t’ho incontrato”.
Purtroppo, alla regista “schizzata stralunata” di “Mia madre” mancano le qualità del “personaggio non personaggio” Moretti negli altri film: il sarcasmo corrosivo, l’invettiva giansenistica e tanto, tanto senso dell’umorismo e dell’autoironia. Quando serve, anche vera tragicità, come ne “La stanza del figlio”.
Non è una critica verso la Buy, appartenente ad una categoria di attori, quella delle “maschere” , con una lunga tradizione e un peso indubbio nella storia del cinema.
Il fatto è che non ci ha convinto nei panni di Moretti donna.
Peccato. Il “cinema nel cinema” (“Mia madre” , ambientanto in larga parte nel backstage del film diretto dalla protagonista, appartiene a questo genere) sarebbe decisamente nelle corde di Moretti, e il tentativo avrebbe potuto essere più memorabile.
Non è detto che non ci ritorni, come ci auguriamo.
Doverose citazioni per la riuscitissima, istrionica interpretazione di Jhon Turturro, nella parte del divo americano scalcinato, e per quella di Giulia Lazzarini, perfetta madre morente.
Rino Casazza
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Bart