La voce nel telefono è lontana, proveniente da un numero anonimo: «È arrivata l’Interpol – mi dice ansiosa-, hanno arrestato Flavio». Dunque, dopo cinque anni, è finita la latitanza di Flavio Tironi, protagonista di uno dei più probabili e gravi errori giudiziari di questo paese. Quattordici anni di processo, assolto due volte. Suo padre Michele, il presunto complice, assolto tre volte. Finchè, la Cassazione, continuando ad annullare le sentenze, rese definitiva l’unica condanna che li vedeva entrambi colpevoli. La vittima? La madre di Flavio e moglie di Michele, che entrambi sostennero sempre si fosse suicidata. Ora, naturalmente, tutto è possibile. Ma non esiste un solo precedente al mondo nel quale padre e figlio si siano accordati per uccidere la rispettiva moglie e madre. Tantomeno con questo movente: il padre voleva forse un’altra donna. Flavio voleva l’eredità o forse sentiva troppo il peso di lei. Labile. Di 45 parti civili possibili, nessuna di esse si costituì, tutte convinte del suicidio. Se omicidio fu, è davvero surreale che siano stati entrambi. E infatti lo scorso anno è spuntata una vecchia lettera in cui il padre, Michele, ormai defunto, si autoaccusava del delitto. Il caso verrà riaperto? Di certo, soltanto nel sistema giuridico italiano Flavio e Michele potevano essere condannati dopo essere stati giudicati innocenti il primo due volte, il secondo tre. Ora verrà chiesta l’espulsione dal Brasile, più rapida dell’estradizione.L’ARRESTO
«La polizia federale si è comportata in maniera molto cortese. Flavio, quando si sono presentati, ha fatto fagotto, ci ha abbracciato e si è lasciato portare via senza problemi. Al nostro bambino ho detto che Flavio doveva tornare in Italia per lavoro. Al momento, almeno il piccolo, è tranquillo». Rio de Janeiro, Lorenza, la compagna di Tironi, racconta quanto avvenuto nelle scorse ore. «Voglio fare un appello perché Flavio venga fatto rientrare il prima possibile. Non sono serena. Come sa, Flavio voleva costituirsi già mesi fa, ma prima voleva assicurarsi che anche io e il bimbo, che è nato qui, potessimo avere i documenti per espatriare. Sul passaporto, per la legge brasiliana, va sempre apposta la firma del padre per poter far uscire il bimbo. Ma lui era latitante e non poteva. Adesso speriamo che qualcuno ci dia una mano a compilare i documenti e a rientrare. E spero che non costino troppo, perché io non ho aiuti nemmeno per vivere».
IL GIALLO DI MOZZO
Flavio Tironi fu il protagonista del cosiddetto giallo di Mozzo, nella bergamasca. E per capirla bene, è meglio partire dall’inizio, tornando al pomeriggio del 28 giugno 1994. Flavio Tironi, 30 anni, figlio unico di Michele Tironi e di Gemma Lomboni, torna a casa dopo essere stato da un amico. Trova papà nel laboratorio di falegnameria adiacente all’abitazione. Mentre della mamma, 56 anni, non c’è traccia. Insieme scendono in cantina a cercarla, ma la porta risulta chiusa dall’interno. La aprono con lo scalpello. E per terra, riversa al suolo, c’è lei: morta, con ematomi su naso, fronte, mento e ginocchia. Una collanina con due mezze lune al collo. E un cappio realizzato con un pezzo di guarnizione appeso ad un gancio sul soffitto.
L’OMICIDIO
Flavio pensa che abbia tentato di impiccarsi, che poi sia caduta e morta. Stacca il cappio e lo appoggia in uno scatolone su un ripiano. Il magistrato dispone l’autopsia. Non ci sono indagati e quindi non viene svolta con un contraddittorio. Ma il referto è terribile: “asfissia da strozzamento” con una “costrizione manuale del collo con compressione manuale dell’apertura orale”. Scatta l’ipotesi dell’omicidio. Indagati diventano padre e figlio, che si proclamano innocenti. Di 45 parti civili possibili, con 13 tra fratelli e sorelle della vittima, cosa più unica che rara, nessuno si costituirà: nessuno crederà mai all’omicidio. Tutti penseranno al suicidio. D’altra parte Gemma si era rotta il ginocchio e lei, tanto bella, era andata in depressione perché pensava le dovessero amputare una gamba. Si tratta di un caso estremamente controverso: per quattordici anni tutto sarà basato su una lunghissima battaglia di perizie sul referto autoptico: da una parte gli esperti che parlano di strozzamento, dall’altra altri esperti che propendono per l’ impiccagione. Certo, il medico legale, quando deve indicare l’ora della morte non è altrettanto preciso. Scrive: “decesso avvenuto nelle prime ore del pomeriggio”. Che vuol dire tutto e non vuol dire niente. Perché si tratta di un raggio di ore così ampio che qualsiasi alibi può non reggere. Succede qualcosa di più, in aula, di grottesco: un ispettore mostra il cappio ai giudici. Ha un nodo definito “fisso”: il che è cruciale per capire se e come possa avere strozzato la donna o se sia stata una mano a stringerle il collo. Solo che l’ispettore, per mostrare che è fisso, lo tira: e il nodo si scioglie. Nessuno l’ha mai misurato. Una prova viene così “bruciata” sotto gli occhi di tutti. E tutto diventa molto più che indiziario.
I processi sono un’altalena.
Entrambi vengono assolti a Bergamo nel 2002, condannato il solo Flavio a Brescia in appello nel 2003, Cassazione che annulla nel 2004. Nuovo processo alla Corte d’Assise d’Appello di Milano nel 2005, che assolve entrambi. Annullamento del processo in Cassazione nel dicembre del 2006. Nuovo processo in appello a Milano nel 2008 in cui entrambi vengono condannati a ventidue anni. E Cassazione che stavolta conferma definitivamente la sentenza il 3 dicembre 2008. Per allora Flavio, dopo due ricoveri in psichiatria per lo stress di dover affrontare un’accusa tanto terribile, per di più in combutta con il padre (e marito della vittima) è già altrove, lontano. Fugge in Brasile con la compagna che nel frattempo ha trovato, e qui ha un figlio.
LA TELEFONATA
Mesi fa si fa vivo su Skype. Mi dice di volersi costituire, ma di avere problemi per i documenti del figlio. Sostiene di non sopportare più la vita da latitante e di non capire come facciano decine di altri, ben più noti, di matrice politica, mai più cercati. Come ha fatto ad ottenere tutta quella notorietà un altro fuggitivo in Brasile che si dichiara innocente, Cesare Battisti. Vai a spiegargli, impossibile trovare parole. «Io ero attaccato a mia madre, è chiaro, è naturale. La portavo a fare la spesa da quando avevo preso la patente, anche prima dell’incidente che subì e che fu la causa del suo suicidio. Ma chi è quella persona che può andare contro la propria madre? Poi, tra virgolette, sei figlio unico, sei coccolato. Ma come si può pensare che io l’abbia uccisa, e per di più con mio padre?»
LA LETTERA
Spunta poi una lettera del padre, ormai defunto, datata 21 aprile 2008, scritta cioè sei giorni dopo la sentenza di condanna in appello a Milano, lettera che evidentemente Michele non volle mai consegnare nella speranza di un’assoluzione definitiva: una perizia grafologica la ritiene autentica. E si tratta della clamorosa confessione di Michele, che scagiona il figlio. Eccola: «Sono passati ben quattordici anni… E non riesco più a tener dentro questo peso. È stata una disgrazia…Quel giorno sono salito dal laboratorio verso le dodici e trenta, trovo mio figlio che parla con mia moglie nella stanza in parte alle scale. Subito dopo mi raggiunge in cucina per mangiare …mio figlio …mi dice che vedeva la mamma particolarmente scossa e secondo lui era da far ricoverare al più presto. Mentre parlavamo dello stato di salute di mia moglie lei entra in cucina probabilmente ci sta ascoltando. Incominciò a dire al figlio “Non dare ascolto a tuo padre”». Flavio esce di casa per andare da un amico. «Subito dopo scende mia moglie in Laboratorio…chiedo dove stesse andando e lei già in uno stato alterato mi rispose: vado a prendere da bere. L’ho seguita da basso in cantina e lì sotto, quando si è accorta che c’ero anch’io ha incominciato ad inveirmi contro dicendomi che in casa sua era la padrona e che faceva tutto quello che voleva. Gli dissi “bere ti fa male te lo ha detto anche il medico”. Continuava a urlarmi contro con maggior forza e foga alzando sempre di più la voce, aggredendomi. In quel momento gli misi una mano sulla bocca e l’altra al collo non so per quanto tempo. Si girò di scatto su se stessa e non riuscendo più a tenerla è caduta sul pavimento. Mi accorsi che non aveva più vita e presi paura sono salito subito… nel laboratorio… L’istinto di sopravvivenza mi fece balenare l’idea del suicidio. Presi un pezzo di guaina la tagliai e tornai in cantina dove l’ho legata ad un gancio. Subito dopo sono risalito e con l’aiuto di un piccolo ferro girai la chiave dentro la serratura tenendo la chiave all’interno». Quando Flavio torna, non trova la madre e vede la porta della cantina chiusa, la sfonda. Il cadavere è lì. «Io gli feci notare il cappio appeso e dissi a mio figlio di toglierlo e lui lo fece…Confesso solo ora come è andata perché solo ora ne trovo il coraggio. Mi dispiace è stato un incidente». Quanto a Flavio: «…Devo delle scuse a Flavio, mio figlio… Non mi ha mai condannato perché ha sempre creduto in cuor suo che tutto ciò non era possibile».
Flavio, scioccato, commentò così la lettera: «Se non l’ho incolpato è perchè non ero in casa e non ho visto nulla di quello che era successo. Speravo solo che lui stesso confessasse, ma probabilmente non ne ha mai avuto il coraggio. Negli ultimi mesi prima della mia latitanza era pronto a farlo, ma gli dissero che era troppo tardi. Con questo non voglio colpevolizzarlo. Io non c’ero e questa lettera non l’ho scritta io. All’inizio ho dubitato di lui, è naturale quando ti dicono che tua madre è stata uccisa. Ma poi capii che non era possibile».
OGGI
La lettera verrà usata come prova per la richiesta di revisione del processo. Spiega l’avvocato di Flavio, Claudio Defilippi: «La porteremo a Venezia, perché a Brescia abbiamo già avuto un rigetto e per la Cassazione è a quel punto possibile chiedere la revisione ad una corte d’appello diversa e competente su Brescia. Quanto a Flavio, stiamo chiedendo l’espulsione dal Brasile, invece dell’estradizione. È più rapida e la nostra è una corsa contro il tempo».