Lo hanno trovato impiccato con un lenzuolo alle sbarre del bagno della sua cella nel carcere di Padova. Si è suicidato così, all’alba del 15 dicembre, l’uomo al centro di una delle più intricate vicende giudiziarie del dopoguerra. O forse no. Perché i risultati della perizia autoptica di parte lasciano sgomenti: Ben Mohammed Ezzedine Sebai, 48 anni, il “serial killer delle vecchiette”, nativo di Kayruan, Tunisia, sarebbe stato ucciso. È una storia strana, stranissima, la sua. Il 10 febbraio 2006, Sebai, già condannato a quattro ergastoli, rivelò clamorosamente di aver ucciso non quattro, ma 14 volte. Una lunga scia di sangue sparso in Puglia tra il 1994 e il 1997. Ciò che è peggio, confessò quattro omicidi per i quali, da un decennio, erano finite dentro ben otto persone.
Tra loro, chi aveva ammesso le proprie responsabilità per poi ritrattare, chi aveva sempre giurato di essere estraneo, chi, come Vincenzo Donvito, si era suicidato gridando la propria innocenza. Il tunisino portò agli inquirenti miriadi di prove: fece ritrovare una pistola rubata ad una vittima, disse a chi aveva venduto la refurtiva, descrisse minuziosamente scene del crimine, vittime e modo per arrivarci. Le indagini furono affidate ad alcuni dei magistrati che diversi anni prima avevano ottenuto la condanna delle persone che lui stava scagionando, chiamati così in qualche modo a giudicare il loro stesso operato. Il risultato dei processi fu sorprendente: per tutti i delitti irrisolti Sebai fu condannato. Per quelli per cui il colpevole c’era già, venne considerato un mitomane.
«Ma il 18 ottobre – spiega il suo legale, Luciano Faraon – la Cassazione aveva annullato la condanna per un omicidio commesso nel ‘96 a Lucera, rinviando le carte alla Corte d’Assise d’appello di Bari per riprenderne in considerazione la punibilità. In base ad una nostra perizia, firmata dal professor Vincenzo Mastronardi con la collaborazione di tre università internazionali, Sebai risultava infatti essere capace di intendere ma non di volere. Una particolare risonanza magnetica nucleare al cervello aveva infatti rilevato anomalie cerebrali dovute probabilmente alle percosse subite alla testa da piccolo». Cosa cambiava? «Moltissimo. Significava che tutti i processi, compresi quelli che scagionavano i presunti innocenti, potevano essere riaperti. E per lui, il probabile invio in un ospedale psichiatrico giudiziario». E allora perché togliersi la vita? «Non c’era motivo. Per la prima volta, una sorella, Zohra, sarebbe arrivata in Italia a trovarlo. La domenica precedente aveva parlato tranquillamente al telefono con un’altra sua sorella, Souad. Pregava tanto e questa sentenza gli dava finalmente la speranza di essere curato e di far uscire di prigione chi era finito dentro ingiustamente a causa sua». Quando ha visto il cadavere sul tavolo dell’obitorio, Faraon non è stato convinto dai segni sul collo del tunisino. In attesa del referto autoptico, ha così chiesto una perizia di parte. L’esito? Scrive il medico legale Massimiliano Mansutti: «è verosimile concludere che il Sebai non sia morto per impiccamento suicidario ma per i danni cerebrali conseguenti ad atto di strangolamento ad opera di terze persone». Un vero e proprio giallo. Con una sola domanda: chi ha ucciso il serial killer?
strano modo di giudicare… un suicidio è un suicidio nelle celle italuane muoiono centinsia di detenuti. se si aprisse un processo per ogni morto la giustizia finiva…